In questi giorni sono andata a ricercare un vecchio libro, letto anni fa, che non ho mai sentito citare nonostante gli ultimi fatti di cronaca. Lorenz è stato per me, come per la maggior parte degli esperti di comportamento, un punto di riferimento stabile, magari un po’ desueto ma innegabilmente fondamentale. “L’aggressività”, questo è il titolo, è una pietra miliare dello studio del comportamento che, forse, noi tutti dovremmo rispolverare per comprendere in modo più adeguato i fatti che prepotentemente hanno invaso, giustamente o meno, le pagine dei giornali e le nostre vite. Credo, inoltre, che Lorenz sia al di sopra di ogni sospetto. In questo testo fondamentale l’autore (lo stesso del saggio “Il cosiddetto male” sempre sulla pulsione aggressiva), tratta dell’aggressività definita come la pulsione combattiva contro gli appartenenti della stessa specie. Già questo dovrebbe farci riflettere. All’origine di questo studio complesso, che si riferisce sia agli uomini che agli animali, c’è l’osservazione del comportamento aggressivo dei pesci della barriera corallina, della vita matrimoniale delle nicottere, dei combattimenti di massa dei ratti, dei duelli cavallereschi dei daini e dei combattimenti ritualizzati dei lupi. Naturalmente parla anche degli esseri umani.
L’aggressività è una pulsione sempre presente, in forme più o meno esplicite e facilmente leggibili, nel corso dell’esistenza di ogni essere vivente ed è indispensabile per la sopravvivenza, in prima battuta del singolo, e in ultima istanza della specie. Se un gatto afferra un topo, lo finisce e successivamente lo mangia, possiamo parlare di aggressività ? La cosa ci sconvolge ?
Il manager di una grande azienda che lavora fino a tarda notte, viaggia molto, si documenta ed ottiene l’esclusiva (ricordate la nota pubblicità) per la distribuzione di un nuovo prodotto…beh!, rassegniamoci: ha posto in essere un’aggressione nei confronti dell’azienda concorrente, possiamo definirla una “meta–aggressione”, senza ferite o lacerazioni, ma ribadisco ha posto in essere un combattimento in piena regola.
Sono passati diversi anni, ma chi non si ricorda il 1982, quando la nostra squadra di calcio vinse i mondiali, nulla di più emozionante, ma un’aggressione a tutti gli effetti, ed il senso di tristezza e di sconfitta che si leggeva negli sguardi dei nostri avversari esprimeva chiaramente uno stato di profonda sofferenza.
L’aggressività, come lo stress, non è male in sé e soprattutto non è e non deve esserlo, estirpabile. E’ una forza della vita e come tale bisogna comprenderla e se possibile sublimarla: quando vinse la prima medaglia d’oro alle Olimpiadi, Yuri Chechi era stressato ed impaurito e, sicuramente, per salire sul podio, per concludere così egregiamente il suo complesso esercizio, avrà utilizzato tutta l’aggressività di cui era capace.
Ho visto esemplari di razze, definite mansuete, per esempio nei working trials per retrievers (sì anche quelli della carta igienica) aspettare con impazienza che venisse abbattuto il selvatico per poter andare a prenderne le spoglie, e quanta dose di aggressività serve ad un Rhodesian Ridgeback per affrontare un leone ?
Per tali motivi, più che parlare di aggressività sarebbe opportuno puntare l’attenzione su ciò che essa produce: le “aggressioni” che sono la manifestazione di tale pulsione.
Per sgombrare, dunque, il campo da errate considerazioni non parlerei assolutamente di aggressività, concetto che implica conoscenze complesse e competenze molto articolate di etologia, biologia, biochimica e, se vogliamo, di filosofia; soprattutto, non presenterei tale pulsione come un effetto (soprattutto della selezione, dato che è una forza attraverso cui proprio la selezione si esplica).
Sicuramente alcune razze sono genericamente state selezionate dall’uomo per ottenere delle risposte più efficienti a determinati stimoli, un cane veloce, muscoloso, con una mascella potente, con una buona dose di combattività ed un livello di reattività elevato è sicuramente più adatto di un altro ad uno scontro fisico, ma non tutti i pit bull sono così. Lavorando in un canile, vi posso assicurare che spesso i pit catturati perché vagabondavano nelle periferie, presumibilmente abbandonati da quelli che organizzano gare fra cani, sono soggetti giovani, molto docili ed adattabili, e dunque non adatti ai combattimenti. E’ altresì vero che nei combattimenti si usano spesso i terrier, che hanno generalmente un buona dose di predatorietà, e che dalla famosa lista Sirchia sono stati totalmente ignorati (come d’altronde qualsiasi altro cane da caccia). E’, inoltre, complesso comprendere come una razza, che si tratti di cani o di altra specie animale, possa avere un albero genealogico “malato”. Probabilmente qui si fa riferimento ad una tara ereditaria o di tipo genetico, ma è ancora da dimostrare che l’aggressività sia legata ad un gene, soprattutto, rimane da dimostrare che l’addestramento abbia un effetto sui geni del cane addestrato e che tale effetto si possa trasmettere di generazione in generazione: per la fortuna di tutti i bravi educatori, i figli di un cane ben addestrato non sanno fare neanche il seduto, a meno che non intervengano fenomeni di apprendimento per facilitazione o imitazione sociale (sempre, però, di apprendimento si tratta e non i trasmissione genetica).
Alcuni studiosi affermano che ci sia un gene dell’omicidio e, in umana, spesso si riferiscono a casi di alcune famiglie in cui ogni componente è stato in un modo o nell’altro imputato di un reato. Tali studiosi ci devono ancora dimostrare che però, tale componente, non è influenzata da fattori di sviluppo e di contesto sociale e questo temo si possa ottenere esclusivamente facendo crescere un neonato da tali famiglie in un ambiente sociale sereno, sicuro e non a contatto con famiglia di origine. Ps questo non è corretto dal punto di vista scientifico: per dimostrare che un individuo con un determinato patrimonio genetico mostra oppure no un determinato tratto caratteriale deve essere tenuto in modo che nessuno stimolo esterno lo possa influenzare e dunque in una situazione di laboratorio, se al contrario lo affido ad un ambiente sereno condiziono, con eventi ambientali il suo sviluppo e dunque non saprò mai se i tratti caratteriali sono o meno con fondamenti genetici. Comunque come lo hai meso tu mi piace di più, più politically correct, va bene
Si parla inoltre di cani che, dati determinati input, danno una risposta scorretta.
A parte la visione fortemente ingegneristica del cane, dei fenomeni di sviluppo e di apprendimento, con quale criterio viene valutata la correttezza?
Con quello del cane, del proprietario o del benessere sociale superiore?
Si possono utilizzare comunque le teorie di bio-feedback, che a partire dagli scritti del padre della linguistica, Noam Chomsky, fino alle impostazioni della Programmazione Neurolinguistica, hanno improntato l’analisi delle forme di comunicazione.
Per poter parlare di comunicazione è necessario che l'emittente ed il ricevente condividano la conoscenza (semantica) della lingua, oltre a conoscere e condividere i presupposti di contesto nel quale la comunicazione si sviluppa.
La comunicazione tra uomo e cane è evidentemente ostacolata non solo da problemi di carattere linguistico (l'uno non capisce il senso del messaggio dell'altro) ma anche di carattere relazionale, che in umana sono studiati da coloro che si occupano soprattutto di cross cultural management (da Hofstede a Trompenaars etc.). Se accettiamo che esiste una comunicazione intra/inter specie (Rugaas et al.) che in parte ci può essere intellegibile (Calming signals) dobbiamo anche accettare che la maggior parte dell'addestramento canino si basa su un presupposto umanocentrico (noi insegnamo al cane).
Il cane percepisce solo i nostri segnali (ma non capisce la semantica della lingua parlata) e li decodifica RISPETTO AL SUO SISTEMA DI RIFERIMENTO : quindi tutta la sua percezione della nostra relazione con lui sarà deformata dalla sua lente interpretativa.
Noi presupponiamo di conoscere il sistema di riferimento del cane (soprattutto derivandolo dal branco dei lupi) ma abbiamo poche controprove di ciò.
Non dimentichiamo inoltre che lo scopo di qualunque comunicazione è l'effetto che questa produce sull'interlocutore : indipendentemente quindi da ciò che noi abbiamo nella testa la vera importanza è ciò che la nostra comunicazione ottiene come risposta dall'altro (fenomeno di feedback, mutuato dalle teorie di biofeedback di matrice biologica).
Da qui ne discende che la responsabilità della comunicazione è al 100% di chi comunica : non è quindi l'altro che non capisce, ma noi che non abbiamo trovato il modo adeguato di esprimerci (presupposto della Programmazione Neurolinguistica).
Il cane, secondo le moderne teorie dell’apprendimento, tende a porre in essere degli atteggiamenti adattivi ottimali. Se tutte le volte che il cane abbaia, riceve attenzione dal proprietario, (gli vengono elargite delle carezze mentre gli viene sussurrata la frase “fai il bravo…”), abbaiare diventa una risposta adattiva ottimale perché il cane, da una parte ottiene un rinforzo positivo (la carezza ed il “bravo”) e dall’altra che lo stimolo contro cui si sta scagliando sparisce (il proprietario lo allontana dallo stimolo o è lo stimolo stesso che si sposta). L’esempio che può chiarire il concetto è tra i più classici: il cane morde il postino. Perché? Immaginiamo la situazione tipica del postino che si avvicina al cancello di casa. Il cane gli va incontro abbaiando in quanto avvisa un pericolo di violazione del suo territorio, il postino depone le lettere nell’apposita cassetta e si allontana. Il cane è convinto di essere riuscito ad allontanare il pericolo. Tutti i giorni, o quasi, il postino ed il cane ripetono la scena e tutti i giorni, o quasi, il cane si convince di riuscire ad allontanare l’intruso. Ancora, se dico bravo al mio cane tutte le volte che insegue un gatto perché detesto questi animali, rincorrere i gatti diventerà un’attività da porre in essere per ottenere ciò che il cane desidera, il nostro plauso.
Il problema nasce quando, nelle successive fasi di apprendimento, si crea una generalizzazione oppure un’intensificazione della risposta, magari anche in questo caso rinforzata involontariamente.
Riprendiamo l’esempio del postino; il cane abbaia e lo stimolo sparisce cosa può succedere se lo stimolo non sparisce più? Può capitare che l’evoluzione del comportamento possa tramutarsi in un’aggressione come comportamento assolutamente corretto, dal punto di vista del cane: il giorno in cui il proprietario decide di far entrare il postino nel giardino di casa, vedrà il suo cane che tenterà di aggredire l’intruso in un modo a dir poco sorprendente. Se inseguire piccoli esseri viventi è un’azione che genera effetti positivi, perché non inseguire anche un bambino, soprattutto se la prima volta che succede il mio proprietario mi dice anche “ma dai fai il BRAVO”.
Ciò che deve attirare la nostra attenzione è tutto quello che ruota intorno al singolo soggetto, gli eventi che subisce la femmina durante la gestazione, l’allevamento, l’ambiente di nascita e di sviluppo, l’intervento di patologie in fase neonatale, la famiglia di adozione e le sue necessità ed aspettative, l‘addestramento o l’educazione, la manipolazione, le cure veterinarie e molte altre componenti.
Iniziamo a vietare l’importazione non controllata di cuccioli da paesi dell’est e la loro vendita nei negozi, vendita di soggetti malati di cimurro, avete letto bene cimurro, che, se non muoiono subito – pietosamente – nei camion, spirano pochi giorni dopo l’adozione; quelli che sopravvivono hanno spesso patologie gravissime legate allo sviluppo psico – fisico, cuccioli immobilizzati da livelli di displasia che si pensavano solo teorici, patologie cardiache o, quando va bene, solo di natura dermatologica. Quelli che superano le prime crisi sul lato fisico, sono spesso mordaci, diffidenti e mostrano patologie del comportamento da manuale, compreso ingoiare oggetti in plastica o lesionarsi gli arti fino ad automutilarsi.
D’altronde come può evolvere la mente di un neonato distaccato dopo pochi giorni di vita dalla madre e dai fratelli, isolato, spesso al freddo in contenitori non confortevoli, costretto a viaggiare al buio nei camion per mezza Europa; tutti sappiamo quanto sia rilevante la componente tattile ed il calore del corpo della madre e dei fratelli per il sereno sviluppo di un cucciolo.
Così come non sono esenti da colpe gli educatori e gli addestratori che ancora troppo spesso si concedono atteggiamenti vessatori oppure di deliberata violenza: collari a punte limate e brutti strattoni con il guinzaglio sono ancora in uso, ahimè in molti campi di educazione, che magari si definiscono di metodo gentile. Si presuppone comunque che, dati questi presupposti teorici, se i loro figli arrivassero a scuola senza i compiti fatti, la professoressa avrebbe tutta l’autorità per usare le bacchettate sulle dita… “piange un po’ ma poi capisce” (frase sentita in un campo di educazione dopo che ad un cucciolone era stato “insegnato” il seduto con un calcio ben sferrato nei posteriori).
Gli educatori dovrebbero essere il punto di riferimento, insieme ai veterinari, di una nuova visione del cane e della possibile convivenza con specie diverse dalla nostra: il metodo gentile non è solo più efficace perché più efficiente (paura e dolore inibiscono infatti l’apprendimento), è un modo per creare un legame affettivo e sociale profondo, è una nuova forma mentis che si basa sul rispetto reciproco e che crea situazioni stabili: se infatti il cane obbedisce al proprietario per paura, nel momento in cui si sente al di fuori della sua sfera di dominio non risponderà più perché non ne ha motivo (cane che non si lascia riprendere al parco).
La paura e la violenza non possono generare cani equilibrati e sereni: generano solo cani infelici, insicuri, ribelli e timorosi di quello che potrebbe accadere o peggio che il proprietario potrebbe fargli. Questi sono i presupposti che conducono spesso ad una risposta aggressiva a stimoli esterni che impauriscono il cane o che lo fanno sentire minacciato. Tali risposte sono “corrette” dal punto di vista del cane, perché ottimali per realizzare il risultato che si pone (eliminare lo stimolo) e sono naturalmente apprese.
Noi umani, che siamo tutori degli animali che ci accompagnano, dobbiamo fare in modo che il cane apprenda in modo sereno a fornire le risposte corrette per la società, fornendogli una crescita serena, una ottima socializzazione ed un’educazione precisa, basata sul gioco e sulla piacevolezza della relazione con noi.
Se un cane ha conosciuto molti stimoli nell’età sensibile, ha una corretta educazione e vede nel proprietario una figura sociale di riferimento, equilibrata e giusta, allora ma solo allora, la risposta aggressiva può essere definita una risposta adattiva non corretta.
Dr. Cinzia Stefanini